Intervista a Sons of Revolution

Ci parlate del vostro background artistico? Da dove venite, come vi siete conosciuti?

Siamo tutti e 4 di Teramo, Abruzzo e il nostro background è molto vario. Ognuno di noi ha un percorso musicale per certi versi differente e gli ascolti sono molto vari, ciononostante la nuova formazione dei Sons of Revolution è sicuramente la più affiatata e la meglio amalgamata musicalmente. Paolo (cantante) ama gli anni ’60 e oltre al rock sia inglese che americano (anche ‘70s), adora la black music (Motown e Stax su tutti). Mario (chitarrista) fonda le sue radici nel rock ‘70s ma è maggiormente influenzato dal rock più moderno e chitarristi come Tom Morello, Jack White o Gary Clark Jr. Romolo (batterista) oltre ad essere un figlio illegittimo di John Bonham è molto addentro il rock alternativo italiano e lui stesso supporta molto la scena facendo parte dell’organizzazione del Play Not Festival che da anni è un punto di riferimento in Abruzzo. Davide (bassista) rappresenta più l’anima anni ’80 e ’90 all’interno della band spaziando dallo street rock al brit rock inglese.

Paolo e Mario suonavano insieme da qualche anno in altri progetti (tra cui una tribute ai Black Crowes) e dopo diversi cambi di formazione hanno finalmente trovato i giusti elementi per il primo album dei Sons of Revolution.

In che misura vi sentite influenzati, e da chi? Vi hanno accostato a Led Zeppelin o ai moderni Rival Sons o Black Keys. Vi riconoscete in questi nomi, o in questi movimenti?

Il nostro primo disco (Sons of Revolution, 2017) è frutto del lavoro degli ultimi due anni e in questo periodo ci sono stati anche dei cambi di formazione. Questo porta una notevole varietà nei brani e sicuramente la maggior parte è di matrice zeppeliniana ma, come detto le influenze sono davvero molte e nel disco alcune canzoni sono più r’n’r alla Zeppelin o Rival Sons, alcune più hard rock alla Black Sabbath o più grunge alla Soundgarden/Alice in Chains e il tutto è condito con un tocco di psichedelia.

Di cosa parlano i vostri testi? C’è un legame tra le canzoni?

I testi sono frutto del nostro vivere quotidiano, non c’è autobiografia in questo, ma riflettono le esperienze e le sensazioni tipiche dei ragazzi della nostra età. Si parla di relazioni che non portano a nulla e finiscono male, la paura di fallire, l’orrore di un boia fronte la morte, l’attenzione per l’ambiente e l’ecologia, il domandarsi da dove veniamo e se siamo soli al mondo, il desiderio di trasgredire e rompere gli schemi, affrontare la morte e superarla.

Vi sentite più a vostro agio fra le mura di uno studio o sul palco?

Siamo una band live e il live è quello che ci fa sentire vivi. Non a caso il disco è stato registrato suonando live per cercare di non “ammazzare” questa nostra indole e mantenendo la spontaneità delle canzoni. Oltretutto avevamo già suonato dal vivo praticamente tutto l’album ancor prima di registrarlo, questo ci ha fatto entrare in studio con le idee molto chiare. Il resto lo hanno fatto Sergio Pomante di Noiselab Studio a Giulianova (TE) e Umberto Palazzo (Massimo Volume/Santo Niente) che in qualità di produttore ci ha accompagnato in questo percorso prima in sala prove e poi durante le registrazioni e il mixaggio.

Veniamo alla scelta del nome della band. Come avete scelto di chiamarvi Sons of Revolution?

Il nome Sons of Revolution è ispirato al periodo di contestazione e ribellione giovanile degli anni ’60. L’epoca in cui la musica è servita da motore di un grande movimento di pensiero e soprattutto artistico/sociale in cui molti cambiamenti hanno significato rompere con la tradizione, contrastare le istituzioni e creare un nuovo linguaggio attraverso le contaminazioni e la rottura delle barriere. Il festival di Woodstock del 1969 rappresenta in pieno questa idea.

Qual è il gruppo o il genere che ascoltate attitudinalmente più lontano dalla musica che fate? Siete attenti a quanto accade intorno a voi, oppure siete degli ascoltatori distratti?

I generi che ascoltiamo sono i più disparati e quindi possiamo dire che non viviamo solo di rock. Dal jazz all’elettronica cerchiamo di spaziare, in questo senso la scelta di Umberto Palazzo come produttore è frutto anche della voglia di non restare ancorati al classic rock ma andare oltre e dar sfogo e spazio a tutte le nostre influenze. Seguiamo e supportiamo la scena italiana, come già detto Romolo da anni organizza il Play Not Festival che fino alla scorsa edizione ha ospitato Anudo, Giuda, Jester at Work, Human Race, The Cyborgs, Kutso, Cristiano Godano (Marlene Kuntz), I Giorni dell’Assenzio… Per quanto riguarda la nostra città Teramo, Mario è impegnato con il MIT (Musica Inedita Teramana), nuova realtà che sta emergendo e ha lo scopo di promuovere e divulgare la musica inedita della nostra città. Restando sul suolo italico ci piacciono molto band come i Giobia, Le Mura, A Morte l’Amore, Calibro 35, Cyborgs, BSBE.

I cinque dischi fondamentali per i Sons of Revolution?

Paolo: Led Zeppelin I, Black Sabbath, James Brown live at Apollo ‘63, Southern Harmony and Musical Companion, Fire and Water.

Davide: Dr. Feelgood, Back in Black, One Hot Minute, Be Here Now, Revolver.

Mario: Meddle, Tubular Bells, Innuendo, Led Zeppelin II, My Generation.

Romolo: Evil Empire, Atom Heart Mother, Led Zeppelin I, Amnesiac, Exile on Main St.

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